
Nasciamo e cresciamo in una famiglia che, per i primi anni di vita, costituisce tutto il nostro mondo. Nell’infanzia siamo immersi in quella famiglia e la consideriamo, inconsciamente, il confine, il limite, il perimetro del mondo così come lo conosciamo. La consapevolezza che il mondo chiuso della propria famiglia di origine non esaurisce il mondo nella sua interezza avviene piano piano, parte dall’adolescenza per concludersi solo in età adulta e, spesso, anche da adulti fatichiamo a distaccarci da quel tutto che la famiglia tende a rappresentare.
Anche le nostre esperienze col cibo, di conseguenza, hanno come scenario primigenio la famiglia. Nella nostra famiglia di origine impariamo a mangiare, qualcuno per noi sceglie come e di cosa nutrirci. E questo ha una fortissima influenza su di noi e contribuisce a modellare i nostri gusti. Anche in ambito di cibo c’è bisogno di valicare quei confini imposti dalla famiglia per scoprire davvero cosa ci piace o meno e come, quando e cosa mangiare. Anche in fatto di cibo è necessario rendersi autonomi e distaccarsi da quello che, per molti anni, la famiglia in cui siamo nati e cresciuti ci impone. Che poi, finora, ho parlato di famiglia al singolare ma sarebbe molto più giusto e corretto parlare di famiglie al plurale. Perché non c’è solo la famiglia costituita dai nostri genitori ma anche quelle dei nostri nonni, degli zii e di tutti gli adulti con cui cresciamo. Spesso queste tradizioni familiari si sovrappongono e si fondono ma ne emerge sempre una preponderante sulle altre.
Nella mia famiglia il cuoco era mio padre. Non perché mia madre non sapesse cucinare o non fosse brava a farlo ma perché a lei non è mai piaciuto cucinare, mentre mio padre, lungi dall’essere un cuoco appassionato, ha una certa predisposizione per la cucina e non gli costava fatica mettere in tavola pranzo e cena per tutta la famiglia. Mio padre ha sempre preferito la praticità alla fantasia e tendeva a scegliere piatti consolidati, semplici e veloci da preparare. Ci ha sempre cresciuti, a me e mio fratello, con rispetto per la stagionalità data dal ritmo della crescita delle verdure e della frutta dell’orto. Ha sempre prediletto alimenti sani e un’alternanza di carne e pesce sulla tavola quotidiana. Inoltre mio padre è sempre stato quello delle grandi quantità. Quando preparava (e credo che lo faccia ancora, in effetti) il ragù, ad esempio, o il minestrone o la panzanella, mangiavamo ragù o minestrone o panzanella per una settimana! E’ sempre stato anche quello contro gli sprechi. In casa nostra non si buttava via nulla ed ogni avanzo veniva riproposto il giorno successivo. Da noi il pane fresco non esisteva perché mio padre comprava discrete quantità di pane che ci bastavano per diversi giorni ma quando stava per terminare e ne comprava di nuovo, non era mai quello fresco che finiva in tavola ma prima andava esaurito quello vecchio di giorni. Così il sapore, la fragranza e la morbidezza del pane fresco ho cominciato ad apprezzarla ed a conoscerla solo ai tempi dell’università, quando sono andata a vivere per conto mio.

Quella di mio padre era la cucina quotidiana, quella che ci accompagnava tutti i giorni dell’anno, ma la cucina delle feste era quella di mia nonna Lina. Dai miei nonni materni spesso trascorrevamo la domenica e sempre tutte le feste comandate. Non solo per questo associo la cucina di nonna Lina alla festa ma anche perché la sua cucina era talmente buona che era una festa per noi poter mangiare qualcosa di cucinato da lei.
La cucina di nonna Lina era, inoltre, indiscutibile. In famiglia era riconosciuta come la migliore. Solo mio zio Vinicio, a volte, provava a metterla in discussione e ricordo ancora oggi il tentativo fallito di far cambiare a mia nonna il suo modo di preparare il ragù secondo una nuova ricetta imparata da sua suocera. Fu una specie di sacrilegio a cui mia nonna si prestò come sempre si prestava a scendere a compromessi con mio zio. Il compromesso più grande fu l’eliminazione totale della cipolla dalla sua cucina. In casa mia siamo sempre stati tutti grandissimi appassionati di cipolla e la utilizziamo tutti per cucinare senza parsimonia, mio zio compreso. Ma, purtroppo, la moglie di mio zio, Stefania, non ha mai tollerato la cipolla e non ne sopporta neppure l’odore. Di conseguenza tutte le volte che lei o mio zio (anche se era da solo perché Stefania si accorgeva se aveva mangiato cipolla anche a distanza!) erano presenti a tavola mia nonna eliminava la cipolla da tutte le sue ricette. Ancora oggi mi chiedo come potessero essere così buoni i suoi minestroni sebbene privi di cipolla.
Forse è per questo che, alla ricetta che vi propongo oggi, che è uno dei cavalli di battaglia di Stefania, ho aggiunto la cipolla, del tutto assente nella sua versione, naturalmente. Forse è una specie di contrappasso per tutta la cipolla a cui abbiamo dovuto rinunciare o, forse, solamente una scelta di gusto perché in questa insalata di patate la cipolla ci sta divinamente!
L’insalata di patate di Stefania è la scelta migliore se dovete preparare un piatto in anticipo per un pic nic, una scampagnata o, semplicemente, un pranzo in ufficio. Perché potete prepararla fino ad un giorno prima e va consumata fredda. È un piatto poco impegnativo e, di solito, mette d’accordo tutti.
In pratica questa insalata è una rivisitazione dell’insalata nizzarda, con la quale ha in comune buona parte degli ingredienti.

Scegliete delle patate di qualità, meglio se biologiche, perché è necessario che in cottura restino compatte, senza sfaldarsi. Io prediligo la cipolla rossa e la uso anche in questa insalata ma, se preferite la cipolla bionda, considerate che ci starà altrettanto bene. Anche il tonno merita qualche attenzione in più. Sceglietelo di buona qualità perché il suo gusto condizionerà pesantemente la riuscita del piatto. Un tonno poco saporito renderà l’insalata di patate anonima e priva di personalità, mentre un tonno particolarmente buono farà in modo che la vostra insalata di patate non sia dimenticata tanto facilmente. Per quanto riguarda le olive io prediligo le taggiasche che, per me, si sposano benissimo col tonno ma potete scegliere la varietà di olive che preferite, meglio se nere.

Insalata di patate di Stefania
Porzioni: 4 persone Tempo di preparazione: 10 minuti Tempo totale: 45 minuti
Ingredienti:
800 gr di patate
2 cuc. di capperi
1 cuc. di olive taggiasche denocciolate
2 scatolette di tonno sott’olio (160 gr)
1 cipolla
6 cetriolini sott’aceto
sale fino qb
pepe nero qb
olio extravergine di oliva qb
Preparazione:
Sbucciare e lavare bene le patate e porle in una pentola capiente. Ricoprirle di acqua fredda e cuocerle per 30 minuti da quando comincia il bollore. Considerate che le patate devono risultare al dente e non sfatte, per cui regolatevi con i tempi di cottura a seconda della grandezza delle patate.
Nel frattempo raccogliere in un’insalatiera il resto degli ingredienti; il tonno sgocciolato e spezzettato con una forchetta, i capperi, le olive, i cetriolini tagliati a rondelle piccole e la cipolla tagliata a velo.
Quando le patate sono cotte scolarle e farle intiepidire. A questo punto tagliare le patate in 4 oppure in 8 pezzi, se sono molto grandi, ed aggiungerle agli altri ingredienti nell’insalatiera.
Condire con sale, pepe e olio extravergine d’oliva. Mescolare bene e servire.
Raccontare le ricette di famiglia significa quasi sempre parlare del nostro rapporto con il cibo, di come nasce la nostra passione per la cucina, di come certi piatti ci abbiano segnato in maniera indelebile portandoci, in un modo o nell’altro, a scrivere di cibo. E, forse, è proprio per la scoperta di queste radici che amiamo anche tanto leggere di cibo.
Rossella ci parla di un piatto povero della tradizione marchigiana, un piatto antico, dimenticato, ma che resta vivo nelle abitudini della sua famiglia: il contorno di fave e biete. Ho scoperto questa ricetta quando la stagione delle fave era ormai trascorsa ma sarà sicuramente uno dei piatti che replicherò la prossima primavera.
Manuela, dal canto suo, ci parla di una ricetta famosissima ma che, nella sua versione, diventa anche personalissima perché profondamente radicata nella sua storia personale. E così preparare gli spaghetti alle vongole diventa un gesto d’affetto che, come dice lei, accomuna ed unisce la sua variegata famiglia mettendo d’accordo tutti.
Laura ci regala un bellissimo ritratto della famiglia dei suoi nonni. Un ritratto che parte da un modo di dire e da alcune fotografie in bianco e nero. Un ritratto che è lieve e profondo nello stesso tempo, raccontato con quella leggerezza che solo lei sa utilizzare per parlare di cose serissime. E leggerla è sempre un immenso piacere.
3 Comments