Di come conobbi Monza ed imparai a preparare il risotto alla monzese

La prima volta che vidi Monza fu per incontrare colui che sarebbe diventato mio marito.

Non che all’epoca ne fossi consapevole, anzi, ma, di fatto, da quel momento si innescarono una serie di eventi che ci avrebbero portati al matrimonio.

Era il 12 gennaio 2014 ed eravamo amici da tre anni senza esserci mai incontrati di persona.

A Firenze io, a Monza lui. Ci eravamo conosciuti grazie alla comune passione per il cinema e da un po’ di tempo avevamo cominciato a sentirci anche telefonicamente ed avevamo approfondito quella che credevamo fosse una bella amicizia.

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Incontrarci di persona fu la naturale conseguenza del rapporto che si era creato. Così, quella domenica di gennaio, presi l’iniziativa, comprai i biglietti del treno e mi recai a Monza.

Ci trovammo alla stazione e lui mi guidò in giro per la sua città che avrei imparato a conoscere anche io. Via Italia, il Duomo, l’Arengario, il ponte dei Leoni, il fiume Lambro, il parco e la Villa Reale, tutti luoghi che, presto, mi sarebbero sembrati familiari e che, in un certo senso, avrei cominciato a considerare un po’ anche casa mia. E poi le librerie, i negozi, i ristoranti, tutti posti dove sarei tornata tante volte e a cui mi sarei affezionata.

Dopo quella prima visita a Monza tante altre ne sarebbero seguite nei due anni successivi, fino a quando non prendemmo la decisione di trasformare quell’amore pendolare in un amore stabile e decidemmo di sposarci e di vivere a Firenze.

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In quei due anni, però, imparai a conoscere e ad apprezzare la cucina brianzola, così diversa da quella toscana che, per me, è la cucina dell’infanzia, quella che conosco da sempre. E mi resi conto che, come io ero cresciuta a pane col pomodoro, panzanella e zuppa c’era chi era cresciuto a cassoeula, torta paesana e risotto alla monzese.

Di tutti i piatti della cucina brianzola forse quello che prediligo è proprio il risotto alla monzese, per la sua semplicità ma anche per l’intensità del suo sapore, per la scelta degli ingredienti e per la loro unione. Il risultato finale è un risotto cremoso e ricco che non ha nulla da invidiare al suo cugino ben più famoso, il risotto alla milanese.

Fondamentale per la riuscita del risotto alla monzese è la scelta di ingredienti di qualità. La luganega è la salsiccia arrotolata tipica della Lombardia. Quella monzese, in particolar modo, comprende nell’impasto di carne di maiale anche formaggio grana, brodo di carne e vino, tutti ingredienti che sono alla base anche del risotto alla monzese. Dalle nostre parti non è facile da trovare la luganega monzese ma si trova facilmente la sua versione commerciale e, in mancanza di meglio, può essere usata anche quella per preparare il risotto.

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Lo zafferano deve essere di buona qualità. Evitate quello in bustine del supermercato e preferite quello in stimmi, possibilmente di coltivazione diretta e provenienza certa.

Il parmigiano che trovate nella mia versione è, in originale, formaggio grana ma io preferisco di gran lunga il parmigiano per il suo gusto più intenso e, di conseguenza, sostituisco sempre il grana col parmigiano. Il risotto alla monzese non fa eccezione.

Per quanto riguarda il tipo di riso io prediligo il Carnaroli per questo risotto o, comunque, un riso dal chicco abbastanza grosso e compatto ma che tenga bene la cottura. In ogni caso potete scegliere il riso che preferite, il risultato sarà comunque ottimo.

Infine due parole sul vino. La ricetta originale prevede l’utilizzo di vino bianco ma io preferisco utilizzare il rosso, come da abitudine secolare dalle nostre parti (il rosso con la carne e il bianco con il pesce), per cui la mia versione di risotto alla monzese è sicuramente apocrifa! Ma voi siete liberissimi di utilizzare un bianco, possibilmente del nord Italia.

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Risotto alla monzese

Porzioni: 4 persone     Tempo di preparazione: 10 minuti     Tempo totale: 40 minuti

Ingredienti:

320 gr di riso Carnaroli

150 gr di luganega

1 cipolla

40 gr di burro

pochi stimmi di zafferano (o una bustina)

50 gr di parmigiano

1/2 bicchiere di vino rosso (150 cc)

sale qb

Preparazione:

Se utilizzate gli stimmi di zafferano fateli scaldare leggermente per sprigionare tutto il loro aroma. Potete fare così: scaldare un pentolino dal fondo liscio. Rovesciarlo ed adagiarvi sopra gli stimmi avvolti in un pezzetto di carta forno. Mettere sullo zafferano un peso, tipo un bicchiere pieno d’acqua e lasciare così un minuto. Gli stimmi non si devono riscaldare troppo perché rischiano di bruciarsi ma questa operazione permette allo zafferano di sprigionare tutto il suo aroma. Mi ha insegnato questo trucco il Pastore d’aromi, un agricoltore di Rignano che vende erbe e spezie buonissime e che non è difficile trovare nei mercatini della Toscana.

Sia che si utilizzino gli stimmi che la bustina, sciogliere lo zafferano in un pentolino di acqua bollente da tenere a portata di mano sul fuoco basso mentre si prepara il risotto.

Tagliare la cipolla a velo e farla dorare in una pentola con il burro facendo attenzione a farla imbiondire senza bruciarla. Aggiungere il riso e farlo tostare a fuoco vivace per qualche minuto. Aggiungere il vino e farlo ritirare. A questo punto abbassare la fiamma e portare il riso a cottura aggiungendo mano a mano l’acqua calda con lo zafferano facendo attenzione a non far ritirare troppo il liquido. Regolarsi con i tempi di cottura del riso ma 7/8 minuti prima che il riso sia cotto aggiungere la luganega sbriciolata. Mescolare sempre soprattutto nella fase finale di cottura del riso facendo in modo che, alla fine, quasi tutto il liquido sia stato assorbito. Spegnere il fuoco, assaggiare, regolare di sale e mantecare con il parmigiano grattugiato.


Per restare in tema di piatti brianzoli il più conosciuto, per lo meno di nome, è sicuramente la cassoeula, un piatto povero a base di verza e cotiche di maiale. La cassoeula è, come dicevamo, un piatto povero, il corrispettivo del lampredotto o della trippa per noi toscani, un piatto realizzato con le parti meno nobili del maiale e con la verza, verdura che cresce in abbondanza nelle campagne brianzole e che ben resiste al clima rigido della zona. A differenza del lampredotto toscano, che ormai si trova anche in versione gourmet, la cassoeula ancora non ha conosciuto una rivalutazione e una nobilitazione tale da affrancarsi dal concetto di piatto popolare quando, invece, ne avrebbe tutte le caratteristiche.

Un altro piatto molto diffuso in Brianza è la cosiddetta orecchia d’elefante, una cotoletta che si distingue dalla cotoletta alla milanese per l’assenza dell’osso e per lo spessore molto più sottile. L’orecchia d’elefante si trova diffusamente in tutti i ristoranti brianzoli e, personalmente, la prediligo rispetto alla cotoletta alla milanese. Fuori dai confini lombardi spesso le due preparazioni si confondono e si ibridano, dato che è difficile trovare una cotoletta alla milanese con l’osso nelle altre regioni d’Italia.

Infine un dessert che è tipico della città di Lissone e che viene fatto in occasione della festa del paese. Si tratta della torta paesana, un dolce povero ottenuto dal riciclo del pane raffermo e dei biscotti secchi uniti a cacao e frutta secca. Il risultato è una torta umida e rustica che però soddisfa anche i palati più raffinati per la presenza del cacao e degli amaretti.

Vi ricordo di utilizzare l’hashtag #lovejamieblog se decidete di preparare una delle mie ricette e di condividerla sui social.

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